Il Rossetti fu il pittore delle anime. Il simbolismo dei suoi quadri è meno evidente nella scelta degli accessorî, di ciò che sia nella posa, nell’azione e nell’espressione delle figure dipinte e disegnate da lui.
I profondi occhi fissano intensamente come interroganti un’impenetrabile mistero, mentre le bocche, sublimi di bellezza, nate al bacio, hanno un qualche cosa di doloroso che sembra dire mille pensieri nascosti, desideri ardentemente perseguiti; paiono ad un tempo sorridere blandamente e dolorosamente socchiudersi, come in quei che scoprono innanzi a sè cose non mai immaginate nè intraviste, e ne sono addolorati e lieti e sorpresi ad un tempo; e dicono parole che l’orecchio mortale non intende, ma che le anime ascoltano e comprendono, dal di là del dominio dei sensi e delle cose materiate nella esistenza:
«Ed avea seco umiltà sì verace
Che parea che dicesse: Io sono in pace».
Quel vivere di lui solitario, lontano dai tumulti, dalla battaglia aspra che egli e gli amici suoi sollevavano con i loro lavori, gli aveva permesso d’interrogare e di sentire profondamente dentro sè stesso e di rendere poi, in immaginazioni ricche di sentimento, di luce e di colore, quella sua vita spirituale che gli dettava i sonetti della House of life, e gli aveva insegnato a cercare nei trecentisti, poeti e pittori, — a’ quali per l’anima si sentiva tanto vicino — i maestri del dire e del fare nell’opera sua.
Forse a questo suo modo di comprendere e di fare non fu estraneo l’ambiente nel quale si sviluppò e crebbe la sua giovinezza. Forse il pensiero e l’opera di Dante Gabriele Rossetti sono un risultato di più, fra i tanti meravigliosi, della lotta per il risorgimento italiano.
A Londra, nella casa del padre suo — l’esule poeta vastese — s’incontravano i profughi italiani, i fuggiti al capestro o alla galera del Borbone e dell’Austria, e chi sa quante volte correva e ricorreva su le labbra di quei forti, destinati a vivere nel paese umido e nebbioso, il nome della terra ricca di sole e di fiori. E chi sa quante volte sonò alle orecchie del giovine il nome di Dante, benedetto come quello di colui che, primo, aveva detto all’Italia la parola della sua libertà nazionale.
W. M. Rossetti, il fratello del poeta-pittore, ha in un suo libro un capitolo, ove appunto egli descrive gli italiani che frequentavano la casa paterna, e ne accenna le discussioni più frequenti, le speranze, gli entusiasmi, gli scoraggiamenti; tutta la vita di uomini che hanno dato tutto il proprio essere ad un ideale, per quello solo vivono e solo in quello sperano. E frequentissime dovevano essere le discussioni su l’Alighieri, poichè, già prima che Dante Gabriele nascesse, il padre suo aveva pubblicato un’edizione in due volumi dell’«Inferno», nel commento del quale s’annunziava già la teoria che egli avrebbe difesa più tardi, compendiando, e poi avanzando molto nell’audacia delle affermazioni, il Filelfo, il Perez, ed il Biscioni.
Forse le teoriche del padre su gli intendimenti nascosti dell’Alighieri — teoriche espresse e difese con grande copia di erudizione nei libri «Dello spirito antipapale», «L’amore Platonico», «La Beatrice di Dante» — non ebbero grande influsso sul pensiero del figlio. Nessuna traccia si riscontra, nel lavoro di Dante Gabriele, delle idee del padre pubblicate nel 1832, nel ’40, nel ’42; ma certamente tutto l’insieme dell’ambiente italiano agì su di lui; egli sentì il profondo sentimento vivo dell’Alighieri, la passione di lui lo infiammò; egli riuscì ad immedesimarsi tanto l’opera del Divino che nel 1849 già gli era nata nella mente l’idea d’illustrare l’amoroso pensiero di Dante.