Il profeta muto

Adelphi Edizioni spa
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Joseph Roth definiva questo libro il suo «romanzo su Trockij». Ma Friedrich Kargan, il «profeta muto» che ne è il protagonista, ci appare piuttosto come una «vita parallela» a quella di Trockij, mentre se mai sarà Stalin, il suo nemico, a risaltare inconfondibilmente da queste pagine nella figura del rivoluzionario Savelli. Come il Franz Tunda di "Fuga senza fine", Kargan è innanzitutto un «senzapatria» in un mondo di persone che si illudono ancora di averla. Dopo aver percorso, «solitario e truce», le strade dei ricchi che lo umiliano, addestrato subito all’illegalità, spinto dal rancore, dalla voluttà della distruzione e dal desiderio di un Assoluto, Kargan si lancia in una sua guerra «contro la società, contro le patrie, contro i poeti e i pittori che frequentano la Sua casa,» – così scriverà alla amata Hilde – «contro la cara famiglia, contro la falsa autorità dei padri e la falsa ubbidienza dei figli, contro il progresso e contro la Sua emancipazione, insomma contro la borghesia». Una tale guerra aveva allora un nome: rivoluzione. Così Kargan seguirà il caucasiano Savelli, conoscerà la lotta clandestina, la deportazione in Siberia, infine la presa del potere: e allora si scoprirà anche, come Trockij, grande stratega militare. Ma proprio quando sembra essere giunto a vedere il ‘trionfo della causa’, divenuto ormai uno di quei capi bolscevichi di cui i giornali occidentali pubblicano la foto nella rubrica «i boia sanguinari», Kargan si ritrova spettatore di qualcosa che, ancora una volta, non gli appartiene. Sua non era la «fede ottusa» degli asceti rivoluzionari; né aveva lottato perché il proletariato si trasformasse in «solido ceto medio»; né perché una torma di piccoli burocrati, dietro i quali si intravedono «gli occhi di ghiaccio e di tenebre» di Savelli-Stalin, pretendessero di costruire un «mondo nuovo» che era solo una variante più sottilmente orrida del mondo vecchio. E Kargan sa perfettamente che questo beffardo «mondo nuovo» non potrà che condannarlo. Le parole le hanno già pronte: «anarchico», «sentimentale ribelle», «intellettuale individualista». Ma, piuttosto che tornare all’Occidente che aveva sognato di distruggere, Kargan preferirà ritrovare la Siberia dove già lo aveva relegato la polizia zarista. In attesa, come Franz Tunda, di una nuova fuga. Dopo aver pubblicato su una rivista, nel 1929, alcuni brani di questo romanzo, Roth confessava: «Temo che abbiano provocato soltanto confusione». E fino alla sua morte evitò di dare alle stampe il libro, che apparve postumo nel 1966. Oggi, di fronte a queste pagine, non si resta confusi ma, se mai, sbalorditi. Il vero «profeta muto» è stato Roth stesso: perché questo romanzo scritto ‘a caldo’ non solo coglie come mai prima il nesso inevitabile fra rivoluzione e disillusione, ma anticipa una sensibilità, una prospettiva di giudizio che solo oggi sembra essersi faticosamente formata. E questo si deve innanzitutto al perfetto istinto di narratore che Roth aveva.

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